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A cura di Murray Stein*

Introduzione

Nel settembre 1969 iniziai la mia formazione junghiana al C.G. Jung-Institut di Zurigo, con l’obiettivo, che in quel momento era ancora solo una speranza giovanile, di diventare un Analista junghiano. Quei tempi, sotto molti aspetti, non erano così dissimili da quelli attuali; sotto altri, invece, erano piuttosto differenti. Il 1970 è stato un anno di disordini sociali e rotture politiche, con proteste contro la guerra in Vietnam e contro le ingiustizie razziali. I leader politici erano sentiti come inappropriati per il periodo storico. Anche l’economia non era così stabile. Sotto questi punti di vista, i tempi erano piuttosto simili a oggi.

D’altro canto, anche le differenze sono significative. Non c’erano internet, computer attraverso cui parlare o social media. Durante il mio quarto anno di studi a Zurigo feci soltanto due telefonate alla mia famiglia in America, poiché i costi erano troppo elevati e, ovviamente, non rientrai a casa neanche una volta in tutto quel periodo. Il mondo era molto più ampio ed esteso per le nostre menti e la nostra esperienza. Ora si è rimpicciolito al punto che posso stare seduto nello studio di casa mia e tenere una conferenza per voi, nelle vostre case, in posti distanti, o a centinaia di colleghi in Cina, direttamente dalla mia scrivania; sono costantemente in contatto via e-mail e Skype con persone di tutto il mondo. Anche l’analisi, durante questi mesi di pandemia, è stata condotta online e attraverso gli schermi. Tutto ciò, nel 1970, era assolutamente inconcepibile.

In questi decenni abbiamo fatto molti progressi rispetto alla capacità di comunicare rapidamente e diffusamente; abbiamo però forse perso qualcosa? La velocità dell’informazione è aumentata, ma la profondità della comunicazione ha tenuto il passo? Molte persone, oggi, ritengono che abbiamo pagato un prezzo per guadagnare velocità e accorciare le distanze. Spesso viene detto che questo prezzo sia stato pagato in termini di relazioni e di vita culturale in generale, a favore della facilità d’utilizzo e della superficialità. Certamente, tutto ciò ha reso le cose più rapide e, sotto molti aspetti, ha randomizzato il cambiamento, al punto che oggi è quasi impossibile predire qualsiasi cosa con certezza. Ci troviamo infatti a dover convivere con la probabilità.

Ho letto recentemente un articolo di giornale che parlava di “politica quantistica”, in un mondo interconnesso che non offre quasi più certezze, ma allo stesso tempo offre nuove opportunità. Praticamente tutto è possibile quando le cose si muovono a questa elevatissima velocità e con così tanti fattori tra loro interconnessi. Penso che questo si possa applicare anche alla nostra condizione di Analisti di orientamento junghiano, che devono pensare a nuove modalità per la propria formazione (oltre che per la propria pratica clinica). In questo momento, c’è in gioco il futuro della formazione analitica e questa potrebbe non tornare più indietro a come essa era impostata prima dell’avvento della pandemia.

Ricordo di aver sentito una storia riguardo a una conversazione tra Jung e l’Analista junghiano americano Joseph Wheelwright. Per come me la ricordo, Wheelwright raccontò di quando, in occasione dei festeggiamenti per l’ottantesimo compleanno di Jung, nel 1955, gli annunciò con orgoglio che gli Analisti di San Francisco avrebbero fondato un istituto di formazione a suo nome. Jung gli rispose: “Bene, fatelo, se dovete, Wheelwright, ma per favore, per l’amor di Dio, il meno organizzato possibile.” In quel periodo, Jung era profondamente coinvolto in discussioni con Wolfgang Pauli sulla relazione tra la psicologia dell’inconscio e la fisica quantistica, conversazioni che lo avrebbero poi condotto a scrivere il saggio sulla Sincronicità come principio di connessioni acausali. Questo aspetto è da tenere a mente per comprendere il suddetto commento di Jung. Personalmente, ritengo che il termine “formazione quantistica” potrebbe esserci utile. Esso lascia infatti spazio alle coincidenze significative e alla guida del Sé; permette che le cose accadano, secondo una attitudine del tipo “wu wei”, così come i saggi cinesi insegnano.

Viviamo nel postmodernismo. I cambiamenti occorsi sul piano globale, durante gli ultimi decenni, indotti soprattutto dall’introduzione dei computer e dall’utilizzo sempre più diffuso di internet, hanno profondamente influenzato le culture di tutto il mondo e ciò ha avuto un impatto anche sulla nostra professione di Psicoterapeuti. Tutto avanza più rapidamente, velocità ed efficienza sono diventati imperativi fondamentali e la superficialità risulta essere il tratto distintivo di questo tempo. La cura del corpo e dello spirito sono richieste più rapidamente che mai. La Psicoterapia a breve termine ha spesso sostituito la Psicoanalisi a lungo termine, perché apparentemente più “efficace” e con costi minori. Chi ha ancora tempo per dormire e sognare? I dirigenti aziendali preferiscono agli Psicoterapeuti i “life coach”, per via di pregiudizi personali. Le lobby delle assicurazioni favoriscono la terapia cognitivo comportamentale (CBT), in quanto sembra portare a risultati con costi minori. Gli stessi pazienti la cercano, poiché promette un rimedio rapido per i sintomi che interferiscono con le normali attività sociali e lavorative.

Saremmo portati a ritenere che il mondo postmoderno sia stato infettato dal virus della superficialità, al punto che la nostra professione sembra diventata una mera curiosità che persiste ai margini della società, anche perché i pochi testardi Analisti rimasti sono troppo vecchi per apprendere i nuovi metodi e adeguarsi alle tecniche del postmoderno. Il prossimo passaggio potrebbe essere che la psicoterapia venga offerta alle masse attraverso dei robot ossia attraverso dispositivi di intelligenza artificiale programmati per rispondere in modo empatico, offrire suggerimenti saggi e prescrivere farmaci a chiunque richieda supporto psicoterapeutico per telefono o via email. In questo clima, dovremmo chiederci, ha ancora senso continuare a formare le persone per una professione che potrebbe non avere futuro?

Da questo punto di vista, vorrei considerare la questione relativa alla formazione di Psicologi alla Psicoterapia di orientamento junghiano per il mondo di oggi e di domani. Può il mondo esterno, così com’è oggigiorno, obbligarci a introdurre un cambiamento significativo su come portiamo avanti la formazione dei futuri Psicoterapeuti e Analisti? Inoltre, quale pensiamo sia la nostra motivazione a formare nuovi Psicoterapeuti e Analisti? E come potremmo e dovremmo continuare a farlo?

Il programma di formazione nel quale io mi immatricolai nel 1969 a Zurigo, e nel quale mi diplomai nel 1973, offriva una ricchezza di insegnanti e supervisori, molti dei quali avevano lavorato con Jung stesso o con il suo entourage. Mi sentivo estremamente fortunato per aver potuto ascoltare le lezioni di Marie-Louise von Franz sulle favole, quelle di Heinrich Fierz e di Adolf Guggenbühl-Craig sulla psichiatria, quelle di Barbara Hannah sui simboli animali nei sogni e infine le lezioni sulla teoria analitica di Jolande Jacobi. Inoltre, sono stato privilegiato per avere studiato con James Hillman e Raphael Lopez-Pedraza, mentre stavano formulando le basi di quella che sarebbe diventata la Psicologia Archetipica.

Il C.G. Jung-Institut di Zurigo offriva un programma di lezioni che erano adatte a quei tempi. Gli insegnamenti offerti erano aperti, creativi, relativamente non strutturati e pensati per adattarsi a studenti come me, non provenienti necessariamente da un background clinico. Da allora, così come vediamo all’ISAP di Zurigo, i requisiti per entrare sono cambiati significativamente, il manuale dei regolamenti si è espanso enormemente, sia come numero sia come norme sia come complessità, e i corsi e le lezioni sono diventati molto più specifici e indirizzati a particolari temi clinici. L’insegnamento ha guadagnato qualcosa in precisione, ma ha perso in ampiezza e profondità. Così come i training professionalizzanti di qualsiasi tipo nel mondo, anche il nostro si è dovuto adeguare allo spirito del tempo. Ritengo che questo sia un motivo, se non di allarme, almeno di necessità di maggiore attenzione.

Forse ora è il momento di ascoltare più da vicino lo spirito del profondo e di considerare le possibilità di attenzione all’inconscio che arrivano dal mondo quantistico. Io ritengo che abbiamo necessità di aprire la nostra immaginazione, come nostra capacità primaria, e di prestare attenzione a cosa l’inconscio può offrirci. Qualcuno potrebbe chiamare questo un movimento neo-junghiano, dal momento che, prima di ogni altra cosa, Jung ha rispettato la guida offertagli dal Sé, soprattutto nei momenti di incertezza. Il suo Libro rosso è una testimonianza della sua considerazione per l’immaginazione.

All’inizio, devo ammettere che c’è stato un bias in favore dell’approccio classico alla formazione, in quanto era, e continua ad essere, basato sull’archetipico e sull’“eterno”, piuttosto che sul personale e “transitorio”. Credo che questo fondamento nel mondo invisibile delle immagini archetipiche e delle energie sia l’aspetto più importante che gli studenti dovrebbero assorbire e integrare nel loro cuore e nella loro mente, nonché nel proprio lavoro e nella propria vita. Questo permetterebbe loro di avere la flessibilità nei momenti di incertezza come quello attuale, di mantenersi saldi in ogni genere di contesto clinico e di essere pronti per qualsiasi cambiamento culturale che prenderà piede in ogni momento della loro vita. Questo fondamento rappresenta la possibilità più significativa di assicurare che la psicoanalisi junghiana continui a essere una professione viva e culturalmente rilevante nel lungo termine. Per quale ragione? Poiché essa offre le maggiori flessibilità e resilienze, e allo stesso tempo, parla al livello della natura umana e dei bisogni psicologici perenni e non soggetti a significativi cambiamenti durante il corso del tempo. Potremmo chiamare ciò una preparazione per i secoli a venire. Questa è fondata su una moltitudine stratificata di esperienze, sia nelle varie forme di cultura umana di tutto il mondo sia lungo il corso dei millenni.

Preferisco pensare al “training” come “formazione”: qualcosa di simile a ciò a cui si sottopongono, nel corso della loro educazione, i candidati di altre antiche professioni, quali la medicina, la filosofia, il sacerdozio e altre importanti vocazioni. La formazione da Analista è condotta all’interno di una cornice istituzionale temporale orizzontale e di una cornice psichica atemporale verticale: esse portano a un’ampiezza delle conoscenze attuali, da una parte, e alla profondità dell’esperienza psicologica, dall’altra. Ciò che vorremmo vedere quale “prodotto” di questo processo di formazione è una personalità ben istruita, da un lato, e psicologicamente e spiritualmente sviluppata, con competenze cliniche e con ampi interessi culturali e sociali, dall’altro. Il training/formazione è anche un processo di “iniziazione” verso una vocazione con chiare norme etiche e una visione collettiva. La nostra domanda di fondo è come preparare uno studente a tutto ciò.

Tratterò ora di quattro aree che sento dovrebbero essere sempre considerate nei programmi di training (formazione) per gli Psicoterapeuti di orientamento junghiano di oggi: 1) il training per la pratica clinica; 2) il training in metodologia della ricerca e per il progresso della teoria; 3) la preparazione personale per la partecipazione alla dimensione organizzativa; 4) l’esame della Persona rispetto alla propria rappresentazione pubblica. Argomenterò come sia importante includere tutte e quattro queste aree in una preparazione che sia equilibrata e pertinente, oggigiorno, per i candidati alla professione di Psicoterapeuti junghiani.

Tutte queste aree, in ogni caso, richiedono riflessioni particolari e attenzione pratica, e ogni area necessita di attingere dall’esperienza di un Analista senior – che ha praticato per un lungo lasso di tempo –, ma anche dalla creatività dei nuovi Analisti, che portano l’atmosfera del mondo contemporaneo e i suoi bisogni nei corridoi, talvolta soffocanti, degli istituti di training. Tutte e quattro le aree dovrebbero inoltre essere radicate in un modello archetipico che tenda alla profondità.

  1. Il training per la pratica clinica

In tutto il mondo, tutti gli istituti e gli enti formativi che sono coinvolti nel training degli Psicoterapeuti di orientamento junghiano enfatizzano, comprensibilmente, la preparazione alla pratica clinica, quale priorità nei loro programmi. La maggior parte di coloro che richiedono il training junghiano è primariamente orientata all’obiettivo di diventare Analista e lavorare con pazienti nella propria pratica privata (o di altro tipo).

Oggigiorno, molti, se non la maggior parte (e in alcuni istituti addirittura tutti) dei candidati per il training negli istituti junghiani, sono già stati precedentemente educati e formati nella pratica della psicologia e della psicoterapia e, nel momento in cui iniziano i programmi junghiani, sono professionisti abilitati. Se non hanno ancora ricevuto la licenza per praticare nelle loro rispettive realtà, viene richiesto ai programmi junghiani di fornire il training base finalizzato alla pratica della psicoterapia, oltre alla formazione più avanzata post-specialistica in Psicologia Analitica. La formazione all’analisi junghiana assume quindi i connotati di specializzazione nell’ambito più generale della formazione in Psicoterapia. Di conseguenza, gli istituti di training sono obbligati a offrire qualcosa di differente, qualcosa di unicamente “junghiano”, nella formazione clinica. Cosa potrebbe essere? Cosa potrebbero offrire di differente rispetto ai programmi generali di formazione alla psicoterapia, così come tutt’oggi vengono offerti dalle università e in ogni altro luogo, e che questi non offrono? Io suggerisco che ciò sia la “psicologia del profondo”.

Quando mi viene chiesto, “Cosa c’è di unico nell’approccio junghiano alla pratica clinica?”, generalmente faccio riferimento a quelli che io chiamo “i quattro pilastri dell’analisi junghiana”. Essi sono: (a) la comprensione dello sviluppo psicologico come un cammino continuo lungo tutto l’arco di vita, che noi chiamiamo “processo d’individuazione”; (b) una comprensione profonda della relazione terapeutica (transfert e controtransfert); (c) una modalità di lavoro attraverso i sogni, che prenda in considerazione i significati sia oggettivi sia soggettivi; (d) la pratica dell’immaginazione attiva. Questi quattro pilastri, quando li troviamo combinati tra loro nella pratica clinica con i pazienti, costituiscono l’unicità dell’analisi junghiana e si differenziano da tutte le altre forme di psicoterapia e di psicoanalisi. Sono questi quattro pilastri, quindi, ciò che deve essere insegnato nei programmi di formazione junghiana e che devono essere appresi dai candidati in modo che possano essere utilizzati efficacemente nella propria pratica clinica. Ognuno di questi pilastri si basa su solide fondamenta archetipiche della teoria junghiana.

  • La relazione terapeutica

I primi istituti di training furono fondati, e aprirono le loro porte ai potenziali candidati, dopo la seconda guerra mondiale. Prima, il training degli studenti prendeva forma in alcuni contesti informali di apprendistato con Jung o con qualcuno della sua stretta cerchia di allievi. Questi “training” erano basati quasi interamente sull’analisi personale e sulla partecipazione volontaria a incontri seminariali e conferenze. Alla fine degli anni ‘40, vennero fondati istituti di training ufficiali a Zurigo, Londra e New York. Altri nacquero poco tempo dopo a San Francisco, Los Angeles, Berlino, così come in Italia e Israele. In linea con la prassi precedente, l’enfasi maggiore veniva ancora posta sull’analisi personale dei candidati. Questo accadde per insistenza dello stesso Jung, in quanto egli riconosceva come pericolo principale, nel momento in cui gli studenti iniziavano autonomamente delle analisi, gli enactment nel controtransfert.

L’esperienza dell’analisi personale è il sine qua non dei programmi di training ancora oggi. Indicata come “analisi didattica”, è pensata per assomigliare a un’analisi ordinaria, se non per il fatto che include alcune componenti educative, che non vengono solitamente comprese nelle analisi con pazienti che non sono in un percorso di training. Come scrisse Jung nel saggio I problemi della psicoterapia moderna (1929), ci sono tipicamente quattro aspetti o fasi in un’analisi: confessione, elucidazione, educazione e trasformazione. In un’analisi didattica, la componente educativa è la più fortemente marcata rispetto a ciò che avviene di solito. Vorrei sottolineare che l’aspetto più essenziale della “formazione,” in ogni caso, è ciò che Jung chiamava “trasformazione”. La confessione e l’elucidazione sono comuni a tutte le analisi; l’aspetto educativo è leggermente più marcato nell’ambito di un’analisi didattica; la trasformazione è la componente più specificatamente “junghiana”, nel senso che tocca i livelli più profondi dell’inconscio e può giocare un ruolo più o meno importante in molte situazioni analitiche, non soltanto in quelle didattiche.

La trasformazione prende vita quando la relazione tra l’Analista e il paziente assume le caratteristiche descritte da Jung nella sua fondamentale opera, La psicologia del transfert (1946). Il motivo per cui è così importante, per la formazione dei candidati, che sperimentino questo aspetto è che esso contiene un elemento di profondità psicologica che va ben oltre agli aspetti cognitivi e personali e dà avvio, nell’inconscio, a un processo di cambiamento sostanziale che rimarrà permanentemente vivo, anche quando l’analisi sarà conclusa e terminata. Questo tipo di analisi è l’esperienza fondamentale nella formazione degli Analisti junghiani. È ciò che darà forma al loro lavoro clinico e alla qualità della loro vita personale da quel momento in poi per tutta la loro carriera e, in effetti, per tutta la loro vita. Questo è qualcosa che non viene offerto dai programmi di formazione universitaria in psicoterapia. È qua che nasce la cosiddetta “libido di parentela” [kinship libido], come Jung la chiamava, e questa legherà i candidati, non solo all’analisi, ma all’ambito disciplinare specifico e a tutta la comunità degli Analisti. Questa è, a tutti gli effetti, l’“iniziazione” alla professione.

Una domanda che è sorta a causa della recente pandemia, che ha interrotto molte delle analisi in presenza, è la seguente: l’analisi online consente una profondità di coinvolgimento psicologico sufficiente per fornire il livello di esperienza necessario alla trasformazione? Alcuni miei colleghi, con riferimento allo schermo piatto, hanno parlato di analisi bidimensionale. È troppo presto per esprimere un giudizio definitivo, ma sospetto che la risposta sia negativa. L’impegno tridimensionale all’interno del τέμενος dello studio di un Analista, a cadenza regolare e per un certo periodo di tempo, sembra essere ancora un requisito fondamentale per un’efficace analisi didattica. Nel frattempo, ci accontentiamo di ciò che rimane possibile nelle attuali condizioni.

  • Il lavoro attraverso i sogni

Oltre a questo livello di coinvolgimento interpersonale e intrapsichico, il lavoro con i sogni è sempre stato considerato una caratteristica essenziale di un’analisi formativa. È difficile concepire una analisi junghiana degna di questo nome che non includa un’ampia considerazione dei sogni portati regolarmente dall’analizzando. Jung era conosciuto per la sua insistenza sul fatto che i sogni ci raccontano di noi stessi a una profondità della psiche che non sarebbe altrimenti possibile raggiungere. I sogni sono la via regia per il Sé. Senza di essi, l’Analista junghiano non saprebbe come lavorare con l’inconscio in modo coerente ed efficace. La formazione dell’Analista junghiano dipende dalle manifestazioni spontanee dell’inconscio sotto forma di serie di sogni.

La questione dell’interpretazione dei sogni è centrale nella pratica junghiana. Come la attuano gli Analisti junghiani e perché? Formare una persona all’interpretazione dei sogni è di per sé un’arte, ma ci sono anche questioni teoriche che è necessario studiare e padroneggiare. Lavorare con i sogni è uno dei pilastri dell’analisi junghiana. La chiave dell’approccio junghiano ai sogni è la comprensione della direzione prospettica dei processi inconsci. Il Sé è il creatore di sogni e il Sé tende all’individuazione. Quindi i sogni sono al servizio del processo di individuazione. Compensano la coscienza, come scoprì Jung, e la indirizzano verso l’integrità, momento dopo momento. Questo processo è sperimentato nell’analisi didattica e le caratteristiche teoriche di questo metodo vengono insegnate nell’ambito dei programmi di formazione.

  • La pratica dell’immaginazione attiva

L’immaginazione attiva è il pilastro della psicoanalisi junghiana che è invece caduto quasi in disuso nella recente generazione post-junghiana, la quale ha preferito invece riporre l’enfasi sulla dimensione relazionale dell’analisi. L’immaginazione attiva è un’attività introspettiva che apre, co-crea e coinvolge il “mondo interiore”. L’immaginazione porta l’individuazione in un territorio molto più profondo a livello intrapsichico, come scoprì Jung nel periodo de Il Libro rosso (1913-1930). Questa dovrebbe essere una caratteristica essenziale in ogni analisi didattica. È il modo più sicuro per elicitare la funzione trascendente nella psiche.

Mi sembra essenziale che i candidati in formazione acquisiscano familiarità con questo metodo non solo come strumento clinico per la loro pratica di Analisti, ma per se stessi personalmente. Sfortunatamente, questo non è stato il caso della maggior parte dei programmi di formazione in questi ultimi anni, e penso che questa trascuratezza di un così importante metodo di lavoro con l’inconscio abbia portato a un certo grado di superficializzazione del nostro ambito. Come ben sappiamo dalla famosa dichiarazione di Jung in Ricordi, sogni, riflessioni (1961), il risultato del suo lavoro su sé stesso usando l’immaginazione attiva è stato il passo decisivo verso una nuova visione della psicoanalisi: “Gli anni più importanti della mia vita furono quelli in cui inseguivo le mie immagini interne. In quegli anni si decise tutto ciò che era essenziale; tutto cominciò allora. I dettagli posteriori sono solo complementi e chiarificazioni del materiale che scaturì dall’inconscio, e che da principio mi travolse nelle sue onde: ma fu esso la materia prima di un lavoro che durò tutta la vita.”

Nell’alchimia, il termine tecnico materia prima indica il materiale necessario per iniziare il processo di trasformazione. Il primo passo di tale processo è raccogliere la materia prima e porla nel recipiente. Senza materia prima non c’è possibilità di trasformazione. Ciò che c’è “dentro” – e vi erano molte ricette per tali operazioni – è quindi di fondamentale importanza. Niente può fuoriuscire che non fosse presente all’inizio in forma potenziale. L’anima deve essere in questa materia. Nell’esperienza di Jung, questo materiale è stato raccolto utilizzando principalmente il metodo dell’immaginazione attiva, come troviamo testimoniato ne Il Libro rosso. Per gli studenti, l’esperienza dell’immaginazione attiva non solo li metterà in contatto con la propria materia prima e con il Sé, ma consentirà loro di parlare della psiche con conoscenza basata sulla propria esperienza personale. L’immaginazione attiva porta il processo d’individuazione a un altro livello e conferisce un solido fondamento nelle profondità della psiche. Il candidato deve scoprire un “Analista interiore” al fondo della psiche, altrimenti il processo di formazione porterà esclusivamente a una “figura professionale”.

  • Il processo d’individuazione

Un ulteriore “pilastro” nella pratica della Psicologia Analitica, oltre alla relazione terapeutica, all’interpretazione dei sogni e all’immaginazione attiva, è la comprensione e la costante consapevolezza degli stadi appropriati del processo d’individuazione, man mano che si articola il processo analitico. Questo è essenziale per comprendere i nostri pazienti, i loro bisogni psicologici e le sfide dello loro sviluppo psichico. Questa comprensione junghiana di base dello sviluppo psicologico e dei compiti specifici di ogni fase può essere appresa solo attraverso un attento studio e ricerca, e la rilevanza clinica è cruciale. Il modo in cui un Analista si posiziona rispetto alla situazione di vita di un paziente, infatti, è determinato fondamentalmente dalla comprensione di dove si trova il paziente in relazione al Sé, il che significa in relazione al rivelarsi del Sé nel tempo e nello spazio e nella vita del paziente. Questo è di fondamentale importanza e deve essere insegnato e padroneggiato nella formazione dei futuri Psicoterapeuti. Gli interventi dell’Analista, verbali e non verbali, sono modulati da questa consapevolezza. Certo, è ovvio che gli Analisti rispondano alla situazione immediata in modo spontaneo, ma sono anche in un certo senso al di fuori della situazione clinica immediata, con un costante sguardo diagnostico sia alla psicopatologia sia ai problemi dello sviluppo. “Un piede dentro e un piede fuori” è un modo semplice per illustrare questa posizione dell’Analista rispetto alla relazione clinica.

Quando questi quattro pilastri del trattamento analitico sono presenti e attivi nel processo terapeutico, allora possiamo parlare di una modalità di lavoro specificamente junghiana. Il modo in cui questi quattro pilastri vengono costruiti e tradotti in pratica durante un programma di formazione è oggetto di discussione. Alcuni di essi dipendono fortemente dall’esperienza nell’analisi della formazione, altri sono messi in atto nel corso della supervisione e della didattica.

  • La supervisione o consulenza sul caso

Una seconda parte quasi altrettanto importante della formazione clinica, quindi, è la supervisione dei casi intrapresi dal candidato durante l’iter di formazione. La relazione con un Analista supervisore è importante per un candidato in formazione quasi quanto la relazione di transfert con l’Analista personale. Anche questa è una relazione di transfert, ma su un altro piano. Non si tratta di trasformazione della personalità del candidato, ma della formazione di un atteggiamento verso il lavoro di analisi. La considero come la formazione di un “atteggiamento” controtransferale distinto da una “reazione” controtransferale.

L’atteggiamento controtransferale è una caratteristica stabile dell’orientamento dell’Analista nel lavoro con gli analizzandi. Per alcuni Analisti è radicato nell’archetipo della Madre, per altri nell’archetipo del Padre e per altri ancora in Ermes-Mercurio, “guida delle anime”. Ci sono anche altre possibilità, naturalmente, e spetta al candidato scoprire, alla fine, l’atteggiamento più appropriato per accogliere i pazienti nella propria pratica professionale. Ho scritto altrove su questo argomento e ho descritto l’“atteggiamento di potere”, l’“atteggiamento sciamanico” e l’“atteggiamento maieutico”. Il primo è radicato principalmente nell’archetipo del Padre, il secondo nell’archetipo di Ermes-Mercurio e il terzo nell’archetipo della Madre. Tutti e tre sono funzionali e possono essere utili a seconda del caso coinvolto, ma è più importante che il paziente impari a pensare in modo simbolico e non solo clinicamente o concretamente.

La formazione di un “atteggiamento simbolico” è di fondamentale importanza per lavorare come Analisti junghiani. L’atteggiamento simbolico è ciò che definirei una “competenza chiave” dell’Analista ben preparato ed è ciò che i pazienti si aspettano di trovare nel momento in cui vengono per il lavoro clinico. Ma cos’è un atteggiamento simbolico? Questa domanda merita un’attenta valutazione. Come sappiamo, l’inconscio parla alla coscienza con simboli. Questi si presentano sotto forma di narrazioni e drammi, immagini, idee e visioni. Possono anche presentarsi sotto forma di sintomi, nevrotici e psicosomatici. L’Analista rifletterà su questi messaggi dall’inconscio come simboli e non come segni, cioè come aventi un significato al di là della palese comunicazione superficiale. Nella supervisione, il candidato sarà sfidato dall’Analista in formazione a pensare in modo simbolico, a pensare al significato potenziale. Questa è una competenza acquisita e la supervisione è il contesto ideale in cui sviluppare la capacità di pensare nei e con i simboli. Spesso è frustrante, per il candidato in formazione, lavorare con i simboli, poiché non ci sono risposte chiare alla domanda: “Cosa significa?” Un simbolo lascia sempre spazio a ulteriori riflessioni e, generalmente, i simboli sono interpretati al meglio in una successione in cui un simbolo amplifica e commenta gli altri.

Non sono particolarmente interessato al termine “supervisione” e preferisco usare l’espressione “consulenza sul caso”. La ragione di ciò è che la supervisione assume una gerarchia distinta con un membro della diade in alto (super) e pertanto guardando l’altro dall’alto. Il rapporto è, ovviamente, inevitabilmente ineguale, ma cerco il più possibile di creare un’atmosfera di dialogo. Insieme rifletteremo su un “caso”, su cui il candidato sta attualmente lavorando. E questo dialogo include la riflessione, non solo sul materiale portato in analisi dal cliente, ma anche sull’atteggiamento e le reazioni controtransferali del collega in formazione. È attraverso questa riflessione che si crea uno specchio nella coscienza professionale del candidato, nel quale, alla fine, potrà osservarsi in azione mentre conduce le analisi con i propri clienti. La realizzazione di questo specchio è di vitale importanza come parte della formazione del nuovo Analista. Questo è ciò che continuerà a essere funzionale come strumento di auto-riflessione interiorizzato, nel momento in cui il supervisore non sarà più presente o disponibile. Ciò che si svolge nella supervisione include, naturalmente, anche problemi e questioni etiche. L’etica professionale può essere insegnata nei seminari didattici di un programma di formazione, ma la pratica clinica è il laboratorio in cui sorgono le questioni etiche e la supervisione è esattamente il contesto in cui devono essere considerate e sulle quali ci si deve confrontare.

La formazione di nuovi Psicoterapeuti di orientamento junghiano comprende, poi, l’esperienza di analisi personale e la supervisione di casi condotta dal candidato in formazione. Insieme a queste due caratteristiche primarie della formazione vi è un aspetto didattico altrettanto importante, ma per certi versi meno critico, che si sviluppa attraverso lezioni, seminari, gruppi di lettura e discussione nella comunità dell’apprendimento. Molto tempo e grande impegno sono generalmente spesi per stilare elenchi di letture, articolare programmi di studio e selezionare docenti, e tutto ciò è necessario per creare una autentica cultura dell’apprendimento. Questa terza caratteristica della formazione è generalmente accompagnata da una serie di esami e “riti di passaggio”. Funzionano come “iniziazioni” lungo le fasi del cammino di formazione e, anche, nella comunità stessa degli Analisti; tali riti collettivi di passaggio, considerati e riconosciuti dalla comunità analitica, contribuiscono a consolidare l’identità del candidato quale membro del gruppo professionale. Tuttavia, questi rituali possono anche essere vuote sciarade se le trasformazioni interiori essenziali non hanno avuto luogo attraverso l’esperienza dell’analisi e della supervisione personale. Dovrebbero quindi servire a riconoscere una realtà nascosta, una “formazione” nell’anima del candidato.

  1. Il training in metodologia della ricerca e per il progresso della teoria

Gli istituti di formazione fondati e gestiti in ogni parte del mondo da società e membri appartenenti alla International Association for Analytical Psychology (IAAP) sono stati sotto pressione, soprattutto negli ultimi anni, per realizzare progetti di ricerca, soprattutto per quanto riguarda i risultati del trattamento analitico. In generale, viene ora considerato parte dei programmi di formazione l’insegnamento della metodologia di ricerca e viene richiesta la redazione di articoli di ricerca nell’ambito della Psicologia Analitica come parte del processo di formazione. Lo scopo di ciò è far sì che i diplomati nei programmi di formazione possano essere sia studiosi sia professionisti.

Quando il C.G. Jung-Institut di Zurigo fu fondato nel 1948, nel suo discorso inaugurale Jung disse alle persone lì riunite queste parole: “Siete venuti qui col proposito, di cui vi sono riconoscente, di fondare questo ente di ricerca designato a proseguire l’opera da me iniziata.” L’enfasi è chiaramente posta sulla ricerca, e nel suo discorso non viene nemmeno menzionata la formazione degli Analisti: “Alle diverse fasi evolutive della Psicologia Complessa corrispondono molteplici possibilità di ulteriori sviluppi. Per quanto riguarda l’aspetto sperimentale, restano ancora molti problemi da affrontare con un approccio statistico e sperimentale.” Egli offrì quindi un elenco di indicazioni per ulteriori ricerche e concluse con questa nota: “In questa presentazione ho riunito cose lontane e vicine, senza alcuna pretesa di completezza. Ciò che ho detto sinora dovrebbe bastare a rendere l’idea di quello che nel campo della Psicologia Complessa è stato finora raggiunto e della direzione in cui si svilupperanno probabilmente le future ricerche dell’Istituto.”

Negli anni successivi alla fondazione dell’Istituto fu istituita una collana di libri con il titolo Studien aus dem C.G. Jung-Institut, Zürich [Studi dell’Istituto C.G. Jung, Zurigo]. Tra le opere pubblicate vi erano: Zeitlose Dokumente der Seele [Documenti senza tempo dell’anima], nel 1952, di Helmuth Jacobsohn, Marie-Louise von Franz e Siegmund Hurwitz; Das Gewissen [Coscienza], nel 1958, di numerosi autori, tra cui lo stesso Jung; e Das Böse [Il male], nel 1961, di Károly Kerényi, Marie-Louise von Franz e Liliane Frey-Rohn, tra gli altri. Naturalmente, anche molti altri libri e articoli furono pubblicati da membri della facoltà dell’Istituto Jung. A Londra, Michael Fordham, uno dei curatori delle Opere complete di Jung, ha fondato il Journal of Analytical Psychology, che rimane a oggi la principale rivista internazionale nel campo della Psicologia Analitica. Il punto è che, inizialmente, nei programmi degli istituti di formazione organizzati era presente una marcata enfasi sulla ricerca, la scrittura e la pubblicazione. Questo è stato visto, ed è ancora visto, come una parte importante, se non essenziale, del lavoro di espansione, raffinamento e approfondimento della teoria e della pratica psicologica.

I programmi di formazione sono il seme di nuove idee creative e direzioni per l’ambito della Psicologia Analitica. Gli studenti sono incoraggiati a scrivere tesi e, successivamente, articoli e libri pubblicabili come parte delle loro attività di Psicoterapeuti junghiani. E gli istituti di formazione vanno orgogliosi delle pubblicazioni dei propri Docenti e Diplomati. È un segno di prestigio. Gli junghiani sono tuttora riconosciuti in tutto il mondo come studiosi e ricercatori. Oggi esistono libri e riviste di Psicologia Analitica in molte delle principali lingue del mondo.

Di conseguenza, spetta ai programmi di formazione promuovere e incoraggiare la ricerca e la pratica della scrittura tra i propri Allievi. Vi sono vari modi per farlo, ma occorre in tutti i casi che questo diventi un aspetto essenziale dell’iter di formazione, per far sì che i Diplomati si qualifichino a pieno titolo come rappresentanti della professione analitica.

  1. La preparazione personale per la partecipazione alla dimensione organizzativa

Dopo essermi diplomato presso l’Istituto Jung di Zurigo, nel 1973, e avere fatto ritorno negli Stati Uniti, avevo una discreta preparazione per condurre sedute analitiche con persone interessate alla psicoanalisi junghiana, ma non ero assolutamente preparato nel partecipare a ciò che sarebbe diventato un aspetto importante della mia vita da Analista ovvero il lavoro all’interno di e con organizzazioni junghiane.

Per “organizzazione”, intendo associazioni professionali o amatoriali, alcune delle quali hanno come obiettivo quello di formare gli studenti nel diventare Analisti, mentre altre hanno lo scopo di offrire letture, seminari e programmi a un pubblico più allargato. Scoprii che tutto questo è già di per sé, per un certo verso, una professione. I programmi di formazione sono entità complesse dal punto di vista organizzativo, che richiedono importante impiego di tempo ed energie da parte di numerose persone – l’essere parte di commissioni, l’insegnamento, lo svolgere il ruolo di amministratori con responsabilità legali e finanziarie, il gestire rapporti con il personale e così via. La maggior parte di queste organizzazioni riesce a sopravvivere e a crescere solo grazie al generoso supporto volontario degli Analisti già formati, e volontario significa “non retribuito” o nel migliore dei casi “poco retribuito”, se comparato al tempo effettivo dedicato a queste attività. Possono, o dovrebbero, i programmi di formazione preparare i loro candidati nella formazione di questo tipo di attività professionale, che contribuisce anch’essa alla collettività junghiana?

Vi è qui una auto-contraddizione: da un lato, sosteniamo ed esortiamo l’“individuazione”, la quale tende a promuovere il valore dell’individuo rispetto al collettivo, e sovente in opposizione a quest’ultimo; dall’altro lato, siamo dipendenti dai contributi del collettivo junghiano per la mera sopravvivenza della professione. L’unico modo che mi permette di vedere collegati questi due opposti è di trasformarli in “polarità”, che riescano a rimanere in uno stato di tensione o di equilibrio reciproci. Se esiste un’etica di comunità tra gli Analisti junghiani, l’individuazione può accogliere in sé anche la partecipazione alla dimensione collettiva. Infatti, come ben sappiamo, l’individuazione non corrisponde all’“individualismo”, in un senso ristretto ed egoistico del termine.

Il lavoro in comunione con altri Analisti potrebbe quindi essere visto come parte della vocazione dell’Analista junghiano. Il senso di questa vocazione richiede che non ci si limiti a lavorare esclusivamente attraverso l’analisi individuale, paziente per paziente, ma anche di concepire un’etica della responsabilità sociale nei confronti di una missione più complessa, che comprende il supporto e l’avanzamento delle idee e dei valori della psicologia junghiana.

Credo che i programmi di formazione possano quantomeno aprire questo tema alla discussione tra gli allievi e, in qualche modo, prepararli alla loro futura partecipazione a società professionali e ai programmi di formazione. Nella mia esperienza, la partecipazione a programmi di formazione e a società professionali ha rappresentato un arricchimento della mia vita. La maggior parte di quelli che considero attualmente i miei amici più cari, conosciuti in età adulta, erano anch’essi Analisti, con i quali ho lavorato in gruppi e all’interno di commissioni. Si tratta di un’estensione dell’individuazione all’ambito sociale e culturale. Guardo a ciò come a un’etica sociale, un imperativo accolto con piacere ed entusiasmo. Il mio grande impiego di tempo ed energie in questo aspetto della vita professionale non ha solo permesso di mantenere vivo il collettivo junghiano, ma mi ha anche consentito di mantenere vivo e vitale me stesso, in quanto Analista junghiano.

  1. L’esame della Persona rispetto alla propria rappresentazione pubblica

Un ultimo aspetto della formazione analitica che vorrei qui citare, e che non viene nominato così spesso in relazione alla formazione, riguarda l’Analista junghiano in quanto figura culturale.

Il nome “Jung” è conosciuto in tutto il mondo, oggigiorno, almeno quanto lo è quello di “Freud”. Mi torna alla mente un aneddoto su Jung. Una volta, egli si recò in un ristorante, dove aveva fatto riservare un tavolo. Il cameriere chiese il suo nome e lui rispose: “Jung”. “Oh”, disse il cameriere con un grande sorriso per averlo riconosciuto, “Sarebbe quello di Freud, Adler e Jung?”. “No – rispose Jung – solo Jung”. Come potete notare, Jung è uno dei “grandi tre” fondatori della moderna psicoanalisi, sebbene il suo nome sia stato difficilmente citato, se non addirittura per nulla, negli storici testi degli Psicoanalisti freudiani.

Nella sfera pubblica, oggigiorno, il nome di Jung è ben conosciuto e simboleggia qualcosa di molto speciale. Quelli che tra di noi portano il titolo di “Analista junghiano” hanno ereditato un “abito”, di cui dovremmo essere consapevoli. Questo “abito” viene fornito assieme alla Persona, acquisita attraverso la formazione e l’iniziazione alla professione. Nei programmi di formazione che ho osservato lungo questi ultimi cinquant’anni – e ne ho visti molti nei miei viaggi, in quanto membro del Comitato Esecutivo e poi Presidente della IAAP (2001-2004) –, non riesco ad individuare alcun elemento che faccia riferimento ad una esplicita preparazione della Persona per la professione di Analista junghiano.

Infatti, la formazione della Persona è poco valorizzata nel suo significato, anche se tutti noi ne riconosciamo il suo valore sociale. Gli Analisti junghiani non sono invisibili alla società. Se qualcuno si presenta in pubblico con questo titolo, ecco che le persone cominciano immediatamente a proiettare su questi certi valori e immagini. Ricordo Joseph Wheelwright, in America, negli anni ‘70, dire pubblicamente: “Noi non siamo astrologi né lettori di tarocchi!”, per prendere le distanze, di se stesso e di noi altri presenti alla conferenza, dalla reputazione di quel gruppo considerato di “ciarlatani”, benché, come sappiamo, Jung facesse uso nella propria pratica sia dell’astrologia sia dell’I Ching. Wheelwright desiderava avvicinare l’Analista junghiano all’immagine del medico, dello psichiatra, dello scienziato, quale Jung a tutti gli effetti era.

L’immagine pubblica che noi Analisti junghiani abbiamo ereditato è complessa. Come dovremmo portarla con noi, e come dovremmo rappresentare il nostro ambito professionale, il nostro settore disciplinare, nel contesto pubblico? Oggigiorno, gli Analisti junghiani sono sovente chiamati a fare dichiarazioni pubbliche intorno a problemi di interesse collettivo – dalle questioni sociali, come il razzismo, alle questioni politiche, come l’autoritarismo, dalle questioni economiche, come il libero mercato capitalista, all’immigrazione, i cambiamenti climatici e altro ancora. I programmi di formazione dovrebbero preparare i candidati anche nello sviluppare un abito pubblico di Analisti junghiani? Non credo si possa offrire una formazione su contenuti così specifici, ma ritengo comunque che la formazione possa occuparsi del diffondere la consapevolezza che sussista anche un ruolo pubblico da giocare nel mondo globale di oggi.

Quando mi viene chiesto che cosa rappresenti Jung nel mondo contemporaneo, in quanto simbolo, faccio normalmente affidamento al concetto di “coscienza primaria”. Questo è ciò per cui lavoriamo con gli individui che accogliamo in analisi, e credo che sia ciò che siamo tenuti a sostenere in occasione di dichiarazioni pubbliche. Ma che cosa ciò significhi realmente è sempre soggettivo. Come minimo, essa significa “consapevolezza dell’Ombra”. La posizione junghiana sulla coscienza comincia con il progetto di rendere l’Ombra un argomento di riflessione e comprensione, e questo può essere applicato sia al contesto collettivo sia naturalmente alla dimensione individuale. Da qui, si può continuare a discutere sul come affrontare gli agiti dell’Ombra, come dare forma al Tiqqun ‘olam, la “riparazione”, e come imparare da questi agiti per evitare gli stessi errori in futuro.

Credo che questi modelli possano essere applicati anche alle attuali questioni politiche ed economiche. In seguito, si può anche discutere delle dimensioni di Anima e di Animus della psiche collettiva, come rendere queste consce e come metterle in relazione l’una all’altra in modo creativo, come Jung scrisse nel suo saggio su La psicologia del transfert (1946). E potremmo anche aprire la discussione al tema del destino e occuparci dell’individuazione della cultura e del Sé su un piano collettivo. Idee come queste potrebbero essere proposte e insegnate nei programmi di formazione e gli allievi avrebbero così l’opportunità di familiarizzarsi con le applicazioni culturali dei concetti junghiani. Questo permetterebbe loro anche di lavorare sul proprio ruolo di Analisti junghiani in pubblico.

L’argomento della formazione della Persona necessita di essere maggiormente discusso. Non è stato sufficientemente preso in considerazione in passato, e sia il presente sia il futuro richiedono agli Analisti di esprimere una posizione “junghiana” nei confronti della società e della cultura.

Alcune conclusioni

Mi viene difficile riassumere ciò che vorrei dire a proposito della formazione degli Psicoterapeuti e degli Analisti junghiani nelle attuali condizioni dell’era post-moderna. In ogni caso, ci proverò.

Innanzitutto, gli aspetti cruciali, in un iter di formazione junghiana, sono l’esperienza personale della psiche e il processo trasformativo dell’analisi. Questi elementi rappresentano senza dubbio il cuore e l’anima della professione. Durante l’analisi, l’individuo ha l’opportunità di entrare in un dialogo trasformativo con l’inconscio e, per ultimo, con il Sé, all’interno di una relazione terapeutica. Qui prende forma il legame con la libido e viene a crearsi il contatto con le profondità della psiche, attraverso il lavoro con i sogni e la pratica dell’immaginazione attiva. Questa esperienza è condivisa in comunità con altri candidati in formazione, e le sue implicazioni vengono esplicitate nell’atteggiamento verso il lavoro dell’analisi e verso la cultura e la sua possibile individuazione. La formazione dell’analisi junghiana è un processo sfaccettato e complesso, e in quanto docenti e Analisti in formazione dobbiamo porre molta attenzione a non perdere di vista i principali compiti e obiettivi dei programmi di formazione.

Sovente mi domando quale “archetipo” incarniamo in quanto Analisti junghiani. I medici hanno come riferimento Asclepio; i giudici, Atene o Maat; gli uomini d’affari e i banchieri, Ermes; i sacerdoti, Melchisedek. Quale immagine archetipica ci chiama a sé, in quanto Analisti? La risposta a questo interrogativo potrebbe offrirci una guida su come realizzare i nostri programmi di formazione. Quale archetipo incarnava Jung in maniera così potente, la cui influenza continua a lasciare il segno, in ogni parte del modo e in un numero di individui sempre maggiore?

Oserei nel dire che aveva in qualche modo a che fare con lo sciamano, quale Jung stesso forse divenne attraverso le sue esperienze, come riportato nello stesso Libro rosso. Lo sciamano è uno “stregone”, un guaritore, ed è qualcuno che è in contatto con il mondo degli spiriti. Lo sciamano non è un esecutivo o un tecnico, sebbene la sua Persona possa emanare potere e capacità. Vi è anche qualcosa di profetico in Jung. Non possiamo imitarlo, pena l’apparire finti e sciocchi, ma penso occorra tenerlo a mente nel portare avanti le nostre attività professionali in quanto Analisti junghiani. La sorgente della nostra forza e del nostro potere proviene dall’“altro lato”, dal Sé, e non dalle istituzioni e dai diplomi. “L’analisi è una lunga discussione con il Grande Uomo – un intelligente sforzo per comprenderlo”, come disse Jung. Comprendere il Sé significa dare uno sguardo al nostro destino di Analisti. Questo è, a mio parere, il lavoro principale della formazione: intraprendere questo dialogo con il Sé.

Il nostro settore ha un futuro? È nostro dovere provare a rispondere a questo interrogativo, se siamo intenzionati a dedicare le nostre più grandi energie alla formazione degli Analisti nel prossimo futuro. Io mi sto ponendo questa domanda da qualche tempo, ormai. La psicoanalisi, in generale, rappresenta oggi una forma di trattamento psicoterapeutico caduta un po’ in disuso. L’analisi junghiana non ha fino a ora subito lo stesso destino, poiché non è mai stata identificata con la professione del medico, come invece lo era la scuola freudiana; allo stesso modo, non ha mai subito quei colpi martellanti dati a questa professione da parte della terapia cognitivo-comportamentale, di altri metodi di trattamento a breve termine e da parte delle compagnie di assicurazione. Nonostante questo, viviamo nello stesso mondo e le mode dell’era post-moderna tendono sempre più alla rapidità e all’esteriorità, gettando la verità nel dubbio e facendola a pezzi attraverso migliaia di opinioni differenti. Viviamo in un’epoca di superficialità dilagante e false narrazioni: “Questo è lo show biz, l’industria dello spettacolo!”

Con questa consapevolezza mi sono rivolto all’I Ching. Il mio interrogativo a questo antico testo sapienziale, che a mio parere parla attraverso la voce del Grande Uomo, era il seguente: “In che modo dovremmo pensare al futuro della Psicologia Analitica, considerato il tempo in cui viviamo?” La risposta è stata l’esagramma 59, Huan, “Dispersione”, “Dissoluzione” o “Lo scioglimento”, con tre linee mutanti: 6 al terzo posto, 6 al quarto posto e 9 al sesto posto, le cui mutazioni producono l’esagramma 28, Ta Kun (Da Guo), “La preponderanza del Grande” o “L’eccesso del Grande”. Questa risposta oracolare mi ha dato molto da pensare. Non avendo qui il tempo né lo spazio per dare una lettura dettagliata di queste immagini suggestive, mi limiterò a offrire un riassunto di ciò che ho appreso.

L’I Ching sembra invitarci ad avere un atteggiamento positivo, per poter agire in maniera espansiva, sviluppare nuove iniziative, “attraversando la grande acqua”. Gli ostacoli che si interpongono sia internamente (complessi, conflitti, paure) sia esternamente (avversari, rivali, oppositori), promette il testo, verranno dispersi come ghiaccio che si scioglie grazie all’acqua che scorre e al forte vento. A ogni modo, dice anche l’oracolo, in questo tempo dobbiamo assumere un atteggiamento “religioso”, il che significa guardare al Sé e alle sue intenzioni, consultare il potere degli archetipi che sottendono i processi storici e dirigono le tendenze che possiamo osservare quotidianamente sui giornali e nelle notizie dei media. La voce del libro ci sta quindi allontanando da ciò che è facilmente afferrabile (lo spirito del tempo) e ci sta guidando verso lo spirito del profondo. Il vento – lo spirito – sta disperdendo ogni forma del pensiero rigido e ha messo in luce abitudini mentali, fattori e complessi, che divengono ora osservabili. Ci troviamo, dopotutto, nell’era della post-modernità, che è estremamente fluida. E noi, in quanto comunità junghiana, siamo in una buona posizione se le nostre guide restano salde e costruiscono templi, se onorano il Sé e non fanno unicamente affidamento all’Io (tecniche apprese, vecchi atteggiamenti, ciò che è già stato provato e ritenuto “vero”). In quanto junghiani, dovremmo sapere come fare ciò.

L’I Ching sta anche annunciando che ci troviamo attualmente in una situazione che potrebbe essere caratterizzata da “dispersione”, nella quale vi è la possibilità di rompere la rigidità nelle nostre menti, per raggiungere una maggior chiarezza nella visione del futuro. Allo stesso modo, è tempo di accantonare le identità superficiali della Persona e gli interessi dell’Io, per dedicarsi piuttosto al recarsi nei templi per compiere sacrifici agli “spiriti degli antenati” (che, nel nostro caso, sarebbero Jung e i suoi migliori allievi; ma anche, prima di loro, gli alchimisti, gli gnostici, gli antichi greci, la Bibbia, le Upaniṣad, i testi taoisti cinesi…). Questo ci condurrebbe in un luogo contemplativo, che ci porterebbe a una visione nell’azione, per poter cominciare nuovi progetti e per lasciarci coinvolgere in un movimento collettiva, in quanto junghiani. A mio avviso, è un consiglio chiaro, che dovremmo tenere sempre a mente.

Le prove che ci attendono nel futuro sono, da un lato, il pericolo della noncuranza e, dall’altro, la troppa ansia (panico), siccome lo spirito del tempo minaccia di annientarci con l’estinzione. Se riusciamo a agganciarci saldamente alle nostre radici, a mantenere la nostra visione chiara e a continuare a dare nutrimento al terreno sul quale è cresciuta la nostra tradizione, alla fine le acque potranno placarsi e noi rimanere vigorosi e pronti per un nuovo giorno. Le sfide prospettate dall’I Ching ci ammoniscono e ci istruiscono su come orientare noi stessi nell’era postmoderna in cui ci troviamo.

Una notte di diversi anni fa, dopo che alcuni di noi si erano ritrovati a discutere intensamente sul futuro della cultura e della pratica junghiana, ebbi un sogno. Andai a dormire con una certa ansia, dopo questa conversazione, nel sogno mi apparì Jung stesso: una cosa per me piuttosto rara, benché, naturalmente, lui sia per me una figura con una valenza simbolica. Era un sogno molto semplice, nel quale Jung mi diceva: “Non ti preoccupare. La Psicologia Analitica ha un futuro lungo e ricco.” Mi svegliai comprensibilmente sollevato e da allora conservo ancora in me questo prezioso messaggio. Mi sostiene nei momenti in cui sento che le acque minacciose si alzano e che rischiamo di venire sommersi e sopraffatti dallo spirito del tempo. Il messaggio di Jung non mi porta alla noncuranza, bensì mi aiuta a rimanere “orientato”.

Le nostre radici di Analisti junghiani si estendono non solo a ciò che Jung scrisse e disse, e alla cultura nella quale lui stesso viveva, la cosiddetta “modernità”. Tali radici scendono invece più in profondità, in ciò che Jung rappresentava, vale a dire una tradizione che ci riporta alle radici della cultura umana – dal mondo greco a quello ebraico, attraverso le narrazioni, i miti e i simboli degli esseri umani di ogni luogo, tra Oriente e Occidente. È la radice profonda in cui incontriamo la sorgente di ogni esperienza visionaria del numinoso per gli individui di ogni tempo e di ogni luogo. Essa attinge a un potere trascendente che attraversa l’intero processo storico di questo pianeta e ancora oltre.

Quando le acque di questi tempi scenderanno e la storia passerà a uno stadio ancora successivo di evoluzione della coscienza, la visione che Jung espresse nelle sue opere e che noi condividiamo nelle nostre, e che le prossime generazioni di junghiani esprimeranno nelle loro, continuerà a sostenere l’impresa che noi abbiamo iniziato, grazie a qualche misteriosa opportunità del fato e del destino, e che ci ha portati insieme, qui, oggi.

Bibliografia introduttiva
  • Jung, C.G. (1929). Commento al “Segreto del fiore d’oro”Opere, Vol. 13, Torino: Bollati Boringhieri, 1988
  • Jung, C.G. (1929). I problemi della psicoterapia modernaOpere, Vol. 16. Torino: Bollati Boringhieri, 1981
  • Jung, C.G. (1948), Discorso tenuto in occasione della fondazione dell’“Istituto Carl Gustav Jung” di Zurigo il 24 aprile 1948Opere, Vol. 16. Torino: Bollati Boringhieri, 1993
  • Jung, C.G. (1948), Prefazione agli “Studi dell’‘Istituto C.G. Jung di Zurigo”Opere, Vol. 16. Torino: Bollati Boringhieri, 1993
  • Jung, C.G. (1958). La psicologia del transfert (1946). Opere, Vol. 16. Torino: Bollati Boringhieri, 1981
  • Jung, C.G. (1958/1977). “Una conversazione con gli studenti dell’Istituto”. In W. McGuire e R.F.C. Hull (a cura di), Jung parla. Interviste e incontri. Milano: Adelphi, 1995, pp. 445-451.
  • Jung, C.G. (1961), Ricordi, sogni, riflessioni, raccolti ed editi da A. Jaffé, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1992
  • Kirsch, T.B. (2002). The Jungians. A Comparative and Historical Perspective. London: Routledge
  • Sarkissian, A. (2020). “La mia sinfonia quantistica”. Financial Times, 29 agosto
  • Stein, M. (1984/1992). “Potere, sciamanesimo e maieutica nel controtransfert”. In N. Schwartz-Salant e M. Stein (a cura di), Transference Countertransference, Evanston, IL: Chiron
  • Stein, M. (2020). “Training depth psychologists for an incredibly superficial world”. L’Ombra, 16, 2020 [“De Anima”]: 165-85
* Lectio magistralis di Murray Stein, “Formarsi come Psicoterapeuti del profondo in un mondo incredibilmente superficiale: sfide formative e cliniche in un tempo di trasformazione e crisi globale”, organizzata dall’Istituto di Psicologia Analitica e Psicoterapia (IPAP) e dall’Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica (ARPA), con il Patrocinio dell’Associazione per gli Insediamenti Universitari e l’Alta Formazione nel Canavese e dell’Azienda Sanitaria Locale TO4, presso il Polo Formativo Universitario “Officina H Olivetti”, Ivrea (TO), il 12 settembre 2020. La traduzione italiana è stata curata da Miriam Buffa, Roberta Cane e Marcello Paltrinieri. La versione originale inglese, “Training Depth Psychologists for an Incredibly Superficial World”, è apparsa ne l’Ombra, Vol. 16, 2020 [“De Anima”], pp. 165-185. La videoregistrazione della lezione è disponibile nel canale YouTube della Scuola.